Monica Flakk, Ingri Haraldsen/REMEMBER THAT YOU ARE POWDER

 

 

Polvere è un nome generico attribuito alla materia suddivisa in particelle di diametro compreso indicativamente fra uno cento micron, le cui unità sono invisibili all’occhio umano.
Da questa considerazione muove la ricerca di Monica Flakk e Ingri Haraldsen in mostra a Spazio Gamma, due artiste norvegesi residenti ad Oslo ma cresciute alle frontiere del continente europeo nel Nord e dell’Ovest della terra scandinava.
Osservatrici privilegiate di fenomeni grandiosi e liminali accolgono nella loro pratica artistica un sistema simbolico ancestrale formalizzato nell’asciuttezza di subbugli materici fra luce e ombra, le cui tracce sono in grado di portarci oltre le misure di quella che può essere considerata, secondo il senso comune, la normale percezione dei fenomeni osservabili attraverso lo sguardo. Se è vero che questo limite è stato razionalmente e tecnicamente modificato verso il basso dall’invenzione del microscopio e verso l’alto da quella del telescopio, è altrettanto vero che permane nella mente umana un desiderio di infinito dentro cui proiettare il proprio sogno dai contorni incerti. E’ una spinta implacabile per noi figli di una insondabile provenienza, afflato di vita tanto siderale quanto magico, in cui ci si sente coinvolti come particelle di una celeste costruzione, della quale il linguaggio scientifico ora è in grado di avvolgere e stabilizzare la struttura in un coerente reticolo di pensiero, le cui maglie però risulteranno sempre troppo larghe per consegnarci la sua reale essenza prodigiosa. La geologia diventa così un’arma impropria nelle mani delle artiste, da tassonomia scientifica codificata attraverso il metodo sperimentale passa ad essere un catalizzatore di fenomeni mitopoietici, disgregando la relazione consequenziale tra causa ed effetto, trascinandone le rimanenze oggettuali su un piano di pura soggettività e intuizione lirica.
I lavori della Flakk e della Haraldsen rappresentano una testimonianza effettiva di questo dispiegamento del sensibile, le due giovani artiste compattano la polvere cosmica che abita l’universo, e di conseguenza gli esseri che lo popolano, per risignificare secondo una nuova polarità il concetto di epoca: scultura, video, carboncino, installazione e fotografia hanno per soggetto materiali protagonisti di civiltà lontane dal tempo della narrazione tecnologica, innescando un cortocircuito semantico interessante in cui il confine tra la verità e la fiaba perde di interesse, per suggerirci un percorso interpretativo lontano da convinzioni e convenzioni pervicacemente instillate nell’uomo che si autodefinisce civile. Ci si mette così in moto, in un inaspettato percorso regressivo in direzione di un unico racconto universale: si passa dal tempo dell’elettrone, dell’atomo e dell’uranio ad un gradino inferiore, verso la civiltà contadina e artigianale per scendere ancora più giù, prima dell’epica della spada e degli eroi fino a raggiungere il regno matriarcale di Gaia, nuda e fertile predisposizione alla vita che trova nella monade il suo monumento eterno e incorruttibile, sostanziato dalla sua semplice eloquenza.

 

ENG
Dust is a generic name given to a matter divided into particles of approximately one hundred microns in diameter, whose units are invisible to the human eye.

This is the starting point for the work by Monica Flakk and Ingri Haraldsen, on show at Spazio Gamma; the two Norwegian artists live in Oslo but grew up on the borders of the European continent in the north and west of Scandinavia.

Privileged observers of grandiose and liminal phenomena, the artists welcome in their artistic practice an ancestral symbolic system formalized in the dryness of material turmoil which occurs between light and shadow and whose traces are able to take us beyond the measures of what can be considered ordinary perception of phenomena through gaze. If it is true that this limit has been rationally and technically modified downwards by the invention of the microscope and upwards by that of the telescope, it is equally true that there is, in the human mind, a desire for infinity within which to project one's dream. It is an implacable thrust for us, children of an unfathomable provenance, imbued with sidereal as well as magical life, in which we feel involved like particles of a celestial construction that scientific language is now able to wrap and stabilize in a coherent network of thought, but whose tangles will always be too wide to deliver its real prodigious essence. Geology thus becomes an improper weapon in the hands of artists, from a scientific taxonomy codified through the experimental method it becomes a catalyst of mythopoeic phenomena, disintegrating the consequential relationship between cause and effect, dragging the remnants of objects on a level of pure subjectivity and lyrical intuition.

The works of Flakk and Haraldsen represent an effective testimony of this deployment of the sensitive, the two young artists compact the cosmic dust that inhabits the universe, and consequently the beings that populate it, to redefine according to a new polarity, the concept of the era: sculpture, video, charcoal, installation and photography are their subject materials and protagonists of civilizations far from the time of technological narration, are triggering an interesting semantic short circuit in which the boundary between truth and fairy tale blurs, to suggest an interpretative path away from convictions and conventions stubbornly instilled in the man who calls himself civil. This is how we set in motion, in an unexpected regressive path towards a single universal tale: from the time of the electron, atom and uranium to a lower step, towards the peasant and artisan civilization to descend even further down, before the epic of the sword and heroes until we reach the matriarchal kingdom of Gaia, naked and fertile predisposition to life that finds in the monad its eternal and incorruptible monument, substantiated by its simple eloquence.